IL CONTRATTO ATIPICO DI MANTENIMENTO

Esigenze sociali e giurisprudenza di riferimento

(Avv. Matteo Lazzara 15 settembre 2018)

L’Italia è uno dei Paesi al mondo con il più alto tasso di longevità: secondo i dati ISTAT del 2015, su 100 mila residenti, ben 34 avevano oltre 100 anni. Secondo le stime, tali numeri sono in continuo aumento.

La moderna struttura sociale del nostro Paese, inevitabilmente, ha creato ripercussioni anche sul panorama giuridico nazionale, il quale necessariamente si deve confrontare con le esigenze della popolazione, costituita da un numero crescente di anziani, i quali, a causa di politiche pensionistiche sempre più rigorose, sono spesso titolari di pensioni insufficienti per il proprio sostentamento.

La ridotta disponibilità economica della popolazione più anziana, in numerosi casi trova un contraltare nel patrimonio immobiliare: basti pensare che sono circa 1,3 milioni i nuclei di anziani che dispongono di un reddito inferiore a 20 mila euro l’anno e che però possiedono una casa che ne vale almeno 200 mila (quotidiano Corriere.it).

In un simile contesto, non stupisce che si sia diffusa sempre di più la necessità di rendere liquida una parte o la totalità della ricchezza rappresentata dalla casa di abitazione, che può pertanto rappresentare una valida ed efficiente opportunità per garantirsi le risorse e l’assistenza necessarie nella fase più avanzata della vita.

A fronte di un inevitabile intreccio tra struttura sociale ed ordinamento giuridico, negli ultimi anni abbiamo assistito alla rapida diffusione di istituti giuridici finalizzati a rispondere alle suddette esigenze della popolazione più anziana, tra cui, in particolare, il contratto di rendita vitalizia disciplinato dagli artt. 1872 e ss. c.c. ed il c.d. “contratto di mantenimento”.

Tralasciando in questa sede l’esame del contratto di rendita vitalizia, la cui disciplina è contenuta nel codice civile, vogliamo soffermarci sul contratto di mantenimento, che non trova nell’ambito della normativa codificata un suo espresso riconoscimento, trattandosi di una figura contrattuale atipica che trae origine dall’autonomia privata ex art. 1322 c.c., la cui validità trova oggi un pacifico riconoscimento in ambito giurisprudenziale.

Per dirla conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità “Con il contratto di mantenimento, una parte (beneficiaria) trasferisce all’altra (contraente-vitaliziante) un immobile ricevendo in cambio un preciso impegno di assistenza” (si veda ad esempio sent. Cass. 11.4.2013 n. 8905).

Nella prassi, il beneficiario della prestazione assistenziale, spesso persona anziana non autosufficiente, cede la nuda proprietà della propria abitazione (di cui pertanto si riserva il diritto di usufrutto), garantendosi, “vita natural durante”, la prestazione di assistenza e mantenimento: vitto, assistenza medica, pulizia della casa e, cosa non trascurabile, compagnia.

Seppur simile al contratto di rendita vitalizia ex art. 1872 c.c., l’istituto qui esaminato si caratterizza innanzitutto per la sua duttilità, potendosi prevedere a carico del c.d. “vitaliziante”, una serie indefinita di prestazioni di natura assistenziale, che pertanto non sono circoscritte alla mera corresponsione di una rendita, essendo al contrario costituite da obblighi di facere, ossia da condotte eterogenee finalizzate ad approntare una completa assistenza al beneficiario.

In altri termini, se il contratto di rendita vitalizia ha ad oggetto una prestazione di mero dare a carico del vitaliziante, il contratto di mantenimento può porre a carico di quest’ultimo sia una prestazione di dare, sia una prestazione di facere, consistente in un’assistenza materiale, morale e spirituale per tutta la vita del beneficiario.

La giurisprudenza di merito e di legittimità si è da tempo pronunziata nel senso dell’ammissibilità della previsione di prestazioni di facere, accompagnate o meno da quelle tipiche di dare (cfr., sul punto, già sent. Cass. 5.1.1980 n. 50).

I predetti contratti sono tuttavia assimilabili quanto al profilo della aleatorietà, elemento imprescindibile per la loro validità, costituita dal rischio determinato dall’incertezza dell’effettivo valore della prestazione a carico del vitaliziante, la cui entità necessariamente dipende dalla durata della vita e dalle concrete esigenze del beneficiario.

L’aleatorietà postula pertanto un giudizio di presumibile equivalenza (o di palese sproporzione) da impostarsi con riferimento al momento della conclusione del contratto ed al grado ed ai limiti di obiettiva incertezza, che deve sussistere a detta epoca, in ordine alla durata della vita ed alle esigenze assistenziali del vitaliziato.

Tuttavia, la maggiore duttilità del contratto di mantenimento, nonché la eterogeneità delle prestazioni che in seno ad esso possono essere poste a carico del vitaliziante, ha condotto la giurisprudenza ad evidenziare che il concetto di alea, nel contratto atipico di natura assistenziale, è necessariamente più accentuato rispetto a quello riferibile al contratto di rendita vitalizia ex art. 1872 c.c., in quanto le prestazioni non sono predeterminate nel loro ammontare, ma variano, giorno per giorno, secondo i bisogni (anche in ragione dell’età e della salute) del beneficiario (Cass. n. 8825/96).

Infatti, la valutazione ex ante (ossia all’epoca della stipulazione del contratto) circa l’imprevedibilità delle effettive prestazione che il vitaliziante dovrà sostenere in adempimento degli obblighi assunti con il contratto di mantenimento, non può prescindere dal fatto che trattasi di prestazioni (prevalentemente) di natura infungibile, che eccedono quelle ordinariamente comprese nell’obbligo alimentare e che pertanto sfuggono ad una immediata ed oggettiva quantificazione in termini monetari, dipendendo fortemente dal bisogno di assistenza soggettivamente percepito dal beneficiario al momento della stipulazione del contratto.

Per tali motivi, secondo l’orientamento maggioritario, nel vitalizio improprio (ossia nel contratto di mantenimento), con riferimento all’età ed allo stato di salute, l’alea è esclusa soltanto se, al momento della conclusione, il beneficiario fosse stato affetto da malattia che, per natura e gravità, rendeva estremamente probabile un rapido esito letale, e che in effetti ne abbia poi provocato la morte dopo breve tempo, ovvero se il beneficiario avesse un’età talmente avanzata da non poter certamente sopravvivere, anche secondo le previsioni più ottimistiche, oltre un arco di tempo determinabile (cfr. sent. Cass. n. 15848/11; sent. Cass. n. 14796/09).

Ove non siano riscontrabili tali caratteristiche, e manchi dunque in concreto l’alea, la negoziazione dovrà considerarsi senz’altro affetta da insanabile nullità (sent. Cass. n. 13869/09). Al contrario, laddove il contratto di mantenimento venga stipulato in un momento in cui non erano oggettivamente prevedibili (secondo un giudizio di “estrema probabilità”) né la durata della vita del beneficiario, né le future concrete esigenze di mantenimento ed assistenza dello stesso, non potrà escludersi la sussistenza dell’alea e quindi la validità del contratto stesso.

Con riferimento specifico all’età del beneficiario vitaliziato, si richiama la sentenza della Corte di Cassazione n. 15848/2011, con cui si è riconosciuta la validità del contratto di mantenimento stipulato in favore di una persona di 84 anni, poiché all’epoca del contratto non sussistevano elementi di fatto tali da indurre a ritenere estremamente probabile un imminente decesso. Sul punto si osserva che diversamente opinando si giungerebbe inevitabilmente a snaturare la finalità e l’efficacia del contratto in esame, posta la sua innegabile funzione sociale di tutela della popolazione di età più avanzata.

                                                             Avv. Matteo Lazzara

                                                             (Studio Legale Minervini)